Una fatica tremenda
Nell'ultimo secolo, che è stato breve sotto molti punti di vista, ma non certo per quanto riguarda l'audiovisivo, si è provato più volte a rinnovare la commedia romantica, genere miracoloso che, quando azzeccato, garantisce risultati quasi certi al box office.
Se è almeno dagli anni '30 (secondo critici autorevoli, come David Thompson, è Accadde una notte di Frank Capra che definisce i canoni del genere), che gli autori lavorano su storie in grado di dosare elementi romantici e sentimentali, le prime innovazioni sono arrivate nel decennio della contro-cultura, quando, prima con i registi della New Hollywood (Peter Bogdanovich), poi con Woody Allen, si è provato a inserire nel racconto elementi più sofisticati e citazionisti.
Innamorarsi - questo sembra insegnarcil il cinema americano da almeno 40 anni - è una questione soprattutto mentale e, va da se, una fatica tremenda. Storie minime
Nel cinema americano contemporaneo, sembrano mancare grandi autori di commedie con uno stile immediatamente riconoscibile, fatta eccezione per le satire razziali di Jordan Peele (per il sottoscritto troppo grottesche e ideologizzate per strappare davvero una risata), e soprattutto Judd Apatow.
Con Woody Allen, oltre alle comuni origini ebraiche, Apatow condivide il gusto per racconti apparentemente minimi, dove i protagonisti lottano con ambienti decisamente ostili, ma da cui non riescono a emanciparsi, per costruire una propria identità, prima di tutto affettiva.
Per il maestro di Brooklyn, si pensi al capolavoro Io e Annie (Annie Hall, 1977), cronaca di una relazione nevrotica nell'America delle prime televisioni via cavo e della disco music, dove, per la prima volta nella storia del cinema, le svolte narrative sono un confronto sul ruolo di Kierkegaard nel cinema di Bergman (!), o un ragno gigante che terrorizza la protagonista, Diane Keaton, nel cuore della notte, e costringe Woody Allen a correre da lei, nonostante abbiano deciso di smettere di vedersi.
Ovviamente nel film di Woody Allen, è il regista-autore a fare da mattatore, a differenza di Judd Apatow che sembra preferire un lavoro dietro le quinte, di regia e showrunning. In Io e Annie, il personaggio di Allen, è presente in quasi ogni scena, raccontando in prima persona la sua vicenda sentimentale: uno stile di racconto che verrà poi utilizzato, in maniera quasi barocca in Manhattan solo due anni dopo. Pensiamo alla famosissima voice over in apertura sulle note di Rapsodia in blue. Il linguaggio del Woody Allen romantico anni '70 si evolverà prima nel sub-genere mumblecore (storie minime, girate in presa diretta e con budget essenziali, come Quiet City, 2007), e in seguito nel cinema di Greta Gershwig (Frances Ha è Manhattan al femminile, quarant'anni dopo). Un buco di palinsesto
Love di Apatow è il tentativo, straordinariamente, riuscito, di raccontare una storia minima, mostrando due personaggi, vittime dello show business e di una città di pura apparenza, come Los Angeles, prima incapaci di amare e di confessare le proprie debolezze (si avvicinano, si rifiutano, tentato di respingersi), ma che non possono fare altro che cedere al sentimento.
Il protagonista, Gus (Paul Rust, anche autore), che curiosamente assomiglia al regista newyorkese, è il tipico "midwestern nice": un "aspirante qualcosa" arrivato nella mecca del cinema dopo il college, ma che, diversi anni dopo, si ritrova a fare il tutor sul set a una attrice bambina insopportabile.
La coprotagonista Mickey è una producer radiofonica, che continua a ignorare i suoi problemi di droga e alcolismo, non riesce a rendersi conto che ormai tutti i suoi amici stanno mettendo la testa a posto, mentre lei, a oltre trent'anni, alterna il sesso con un quasi fidanzato cocainomane che vive con i suoi genitori, all'ennesima festa inutile di celebrities.
Come in Io e Annie, sembra essere l'ambiente a rendere impossibile l'amore dei protagonisti: Mickey, vive le relazioni come l'ennesimo prodotto di consumo, per riempire un buco di palinsesto. Gus invece, sembra essere condannato al ruolo di mentore accondiscendente di una ragazzina viziata, quando forse il segreto della sua affermazione professionale, e sentimentale, sta nel mostrare le unghie e far crollare la sua facciata di gentilezza, che gli dà lavoro, ma non gli permette di entrare in contatto con le sue vere aspirazioni.
Love, deve la sua eccezionalità a un corollario di personaggi memorabili (dalla coinquilina australiana di Mickey, spaesata e incapace di mentire, all'amico di Gus che prova da anni a fare lo stuntman), consapevoli della loro distanza dai miti di successo per cui sono arrivati a LA ma che, comunque, riescono ad essere sinceri e coesi.
In tempi di post lockdown, un feel good show fa sempre bene. Specialmente se siete appena stati lasciati via whatsapp e avete bisogno di recuperare un po' di empatia (ma non per il vostro ex, vi prego).
Michele Furfari è un autore e sceneggiatore televisivo. Diplomato alla National Film and TV School (NFTS) di Londra e corsista presso la scuola di specializzazione di RAI Fiction, ha sviluppato progetti per il mercato nazionale e internazionale.
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